I giovani non hanno voglia di studiare. I giovani non hanno voglia di lavorare.

È questo il motivo dietro la percentuale in crescita dei NEET, quei giovani – da leggere con un tono appena dispregiativo – che non stanno seguendo un percorso di studio né tantomeno un percorso lavorativo; è questo il motivo dietro la percentuale in crescita dei cervelli in fuga, quei giovani – da leggere scuotendo la testa davanti a questi traditori della patria – che non vogliono fare della gavetta la propria vita e cercano condizioni di vita migliori.

I giovani non hanno voglia di fare niente. È questo il motivo dietro l’invecchiamento della nostra popolazione (il termine usato dalle Nazioni Unite è proprio ageing population) e quindi del nostro Paese. O forse non è proprio così che stanno le cose?

L’Italia non è un Paese per giovani. Lo dicono i dati, lo dicono i giovani stessi che si vedono costretti – in uno dei migliori dei casi – ad accettare contratti di stage “6 + 6” da parte di grandi aziende, un po’ nella speranza di rendersi tanto preziosi da poter restare, un po’ per non ritrovarsi sul curriculum quel temuto spazio bianco, quel gap temporale in cui non si è fatto niente – che poi non sia dipeso dalla persona poco importa. Quel gap temporale non è segno di difficoltà nel trovare un lavoro degno di questo nome: è segno di pigrizia, peggio ancora di incapacità.

Lo dicono anche i cervelli in fuga o quelli già fuggiti. Lo dice, tra tanti, Sofia Torlontano che è stata nostra ospite durante il talk “Includere i giovani con S.T.I.L.E.” [inserire link https://4w4i.it/event/includere-i-giovani-con-s-t-i-l-e-]. Ora dottoressa in Sviluppo e Cooperazione Internazionale, durante gli ultimi mesi di università ha mandato il curriculum a varie realtà, per lo più ONG, in Italia e all’estero. Se in Italia il suo curriculum non era abbastanza per un ruolo più importante di uno stage – l’ennesimo, nel caso di Sofia – all’estero il percorso affrontato è stato riconosciuto come valido dalla UN City di Copenhagen. Partita con l’intenzione di tornare in Italia a contratto scaduto, Sofia non è più tanto certa di voler rientrare: da studentessa – perché intanto ha iniziato un master – e lavoratrice, ci racconta, le conviene restare lì.

Non è solo il desiderio di essere presi sul serio nonostante l’età e le esperienze pregresse il problema: sempre più giovani vogliono condizioni lavorative vantaggiose che permettano loro di continuare a vivere. La settimana lavorativa da quattro giorni è stata sperimentata con successo nel Regno Unito, la pandemia ci ha costretti a sfruttare lo smart working e riconoscerne il valore – possiamo davvero biasimare chi non vuole sedersi davanti a una scrivania alle 9 del mattino per poi alzarsi, indolenzito, alle 18? Possiamo davvero biasimare chi dalla vita vuole di più?

Nel 2020 la frase “I do not dream of labor” – traducibile in “Non sogno il lavoro” e la cui origine è stata ricondotta con non poca fatica allo scrittore James Baldwin – è stata rilanciata con dei tweet e una serie di video su TikTok e, virale, si è trovata al centro di vari articoli come quello di Therese Marie Lim [inserire link https://thebeaulife.co/lifestyle-news/i-dont-dream-of-labor-trend].

Durante una lezione di inglese del mio primo anno di università l’esercizio si basava sulla listening comprehension di un video, “What Would You Do If Money Didn’t Matter?” [inserire link https://www.youtube.com/watch?v=a0FUsy5pqa4], ispirato a un seminario del filosofo Alan Watts. Non ho saputo rispondere alla domanda e, in tutta onestà, non so rispondere nemmeno oggi: è da quando ero bambina che so che il denaro conta eccome. Non “fa la felicità”, come suggerisce il vecchio detto, ma è sinonimo di stabilità e sicurezza. Che senso ha rincorrere una passione che non può portarmi da nessuna parte, una passione che non può portarmi guadagno? Che senso ha scegliere un percorso universitario senza sbocchi lavorativi certi e ben pagati? Poco importa l’insoddisfazione se c’è uno stipendio con abbastanza zeri a fine mese. Poco importa la mancata realizzazione personale se c’è quella lavorativa.

Il sistema economico in cui è inserita la società di oggi ci ha illusi, ci ha detto che la via della realizzazione passa attraverso la hustle culture, in pratica lo stacanovismo. In modo più o meno consapevole, i giovani di oggi rifiutano questo sistema pur vivendoci all’interno, immersi nel capitalismo fino al collo.

Come vivi tu il mondo del lavoro? Continuiamo la conversazione sui social o su Valory.

Ti aspetto.

Vera Lazzaro Valory reporter
Vera Lazzaro – Valory Reporter